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Animal Kingdom

28 ottobre 2010

Animal Kingdom: la locandina del filmRECENSIONE
titolo originale: Animal Kingdom
regia: David Michôd
cast: Ben Mendelsohn, Jiel Edgerton, Guy Pearce, Luke Ford, Jacki Weaver, Sullivan Stapleton, James Frecheville, Dan Willie, Anthony Hayes, Laura Wheelwright, Mirrah Faulkes, Justin Rosniak, Susan Prior
genere: Drammatico
paese: Australia
anno: 2010
distribuzione: Mikado
durata: 156′
uscita nelle sale: 30/10/2010
8

Sin dalla prima scena Animal Kingdom tira con forza verso di sè lo spettatore e gli sussurra piano, con una vocetta ambigua e sarcastica, che niente è come dovrebbe essere nei sobborghi di Melbourne. Un ragazzo e una donna addormentata sono seduti sul divano davanti al televisore acceso, nessuno dei due si muove. Sembra una scena quotidiana, invece arrivano l’ambulanza e la polizia e portano via la donna. Ed è lì che capiamo che lei è la madre del ragazzo e che ha appena avuto un’overdose. Il tutto avviene senza urla e senza disperazione, con i dialoghi e la gestualità corporea asciugati fino all’osso.
Comunque sia, la mamma muore e Joshua, detto J, (James Frencheville) resta solo nella sua casa vuota; la prima persona a cui pensa di rivolgersi è sua nonna, Janine “Smurf” Cody, che lo invita a stare con lei e il resto della famiglia. Si trova così immerso da un giorno all’altro in un mondo al quale è estraneo e che anche noi vediamo e conosciamo attraverso i suoi occhi. Come lui restiamo senza parole e incapaci di orientare la nostra bussola valoriale, davanti a una affiatata famigliola criminale che si stringe intorno alla figura materana di Janine – la quale, per inciso, è interpretata da Jacki Weaver, che ne fa personaggio ambiguo in maniera agghiacciante, con uno sguardo e che può tranquillamente fare il paio con quello del Jack Torrance in Shining.
Il regno animale cui fa riferimento il titiolo del film è composto da spacciatori che sembrano bambini con il corpo muscoloso troppo sviluppato e donne dall’ambiguo carisma edipico, fidanzatine che non disdegnano uno spruzzo di eroina in vena e poliziotti che sono alleati dei criminali, rapinatori di banche che all’occasione diventano assassini e avvocati senza scrupoli che superano di gran lunga i limiti dettati dal proprio mestiere. In questo marasma suburbano il protagonista si lascia invischiare per debolezza e ingenuità o forse per solitudine e quando diventa consapevole di avere una scelta è già troppo cresciuto per potersi veramente salvare. Un film dall’impatto violento, la cui forza si poggia sul capovolgimento dei valori familiari stereotipizzati e sui chiaroscuri nei quali sfumano le differenze tra bene e male, tra affetto e morbosità, tra protezione e violenza.
Il regista e sceneggiatore David Michôd prima di scrivere questo film aveva firmato molti reportage giornalistici sul mondo del crimine di Melbourne, dunque quello che vediamo sullo schermo è ispirato alla realtà, anche se è una storia di finzione. Ed è forse questa profonda conoscenza dell’argomento che gli permette di presentarci la complessità umana della Melbourne più oscura, rendendola estremamente autentica attraverso un film corale. Un esordio cinematografico molto ambizioso, caratterizzato da una sconvolgente freddezza scientifica, inquietante come uno colpo di pistola con il silenziatore.

Maria Silvia Sanna

City Island

24 giugno 2010

City IslandRECENSIONE
titolo originale: City Island
regia: Raymond De Felitta
cast: Andy Garcia, Julianne Margulies, Steven Strait, Dominik Garcia-Lorido, Ezra Miller, Emily Mortimer, Alan Arkin
genere: Commedia
paese: USA
anno: 2009
distribuzione: Mikado
durata: 104
uscita: 25/06/2010
7

I Rizzo sono una famiglia anti-Mulino Bianco di casa in un’isola del Bronx che sembra un piccolo villaggio a sé; appena ne facciamo la conoscenza siamo subito spinti da un’istintiva simpatia verso i suoi membri. Dopo pochi minuti sappiamo anche che non accetteremmo mai un invito a cena da loro, comunque non senza dei buoni tappi per le orecchie per non udire le loro deliranti (e gridate) conversazioni. Sotto una (sottile) patina di normalità, ciascuno di essi nasconde piccoli segreti e bizzarre manie che lo caratterizzano. Tutti fingono di fare cose e/o nutrire desideri che ritengono socialmente accettabili, nascondendosi dietro un’impalcatura di menzogne e coperture. Lo scheletro nell’armadio più grande di tutti è incarnato da Tony (Steven Strait, già visto in 10.000 d.C.), il figlio segreto, nato da una precedente relazione, che compare dal nulla nella vita di Vince Rizzo (Andy Garcia) e della sua strampalata famiglia.
Con toni allegri e personaggi fuori dalle righe la commedia di Raymond De Felitta (regista anche di Ricomincio da me e Two Family House), affronta il tema della sincerità contrapposta alle convenzioni sociali. Queste ultime sono introiettate al punto che i Rizzo non riescono a essere se stessi nemmeno in famiglia: l’inevitabile e triste risultato è vivere tra sconosciuti dentro la propria casa, perdendo il contatto e la capacità di comprendersi. Ma, come vuole l’adagio, le bugie vengono a galla e, a sorpresa, questo non fa che migliorare le cose. Con un ottimistico e alquanto melenso finale i protagonisti scoprono che farsi accettare per quel che si è veramente è più semplice di quanto si possa credere.
Film indipendente e a basso budget, pur essendo uscito negli USA solo in una manciata di sale, ha realizzato un discreto incasso e si è fatto notare dalla critica per la scrittura vivace della sceneggiatura, il cast affiatato e la location originale, che mostra una New York insospettabile.  City Island funziona come una classica commedia degli equivoci, con un buon ritmo e una grande leggerezza. Andy Garcia è del tutto a suo agio in questo ruolo diverso dal solito, esilarante soprattutto quando si produce in una grottesca imitazione di Marlon Brando. Del cast fa parte anche la seducente figlia dell’attore di origini cubane, Dominik Garcia-Lorido, mentre Steven Strait sembra lanciato per diventare il prossimo sex-symbol maschile di Hollywood. Come sempre convincente Emily Mortimer (Shutter Island, Lars e una ragazza tutta sua) qui nel ruolo della tenera e nevrotica aspirante attrice.

Maria Silvia Sanna

Agora

23 aprile 2010

RECENSIONE/ANTEPRIMA
titolo originale: Agora
regia: Alejandro Amenabar
cast: Rachel Weisz, Max Minghella, Oscar Isaac, Ashraf Barhom, Michael Lonsdale, Rupert Evans, Richard Durden, Sami Samir
genere: Kolossal
paese:  Spagna
anno: 2009
distribuzione: Mikado
durata: 126′
uscita nelle sale: 23/04/2010
7

Alejandro Amenabar ama giocare sui contrasti e sperimentare le potenzialità dei vari generi cinematografici. Dopo Abre los Ojos e il fortunato The Others, che lo avevano posizionato tra le nuove leve del cinema fantastico ispanico, nessuno si sarebbe immaginato un film intimista, come è stato Il mare dentro (premio Oscar per il Miglior Film straniero nel 2005). E dopo quest’ultimo film, nessuno – nemmeno lui stesso stando a quanto dichiara – avrebbe potuto predire che si sarebbe dedicato alla regia di un kolossal. Girare Agora è stata una scelta coraggiosa, e non solo per il repentino cambiamento. Il film, ambientato nell’Egitto del IV secolo d.C., affronta temi attuali e scottanti: l’emancipazione femminile, l’intolleranza tra i popoli, la dicotomia tra scienza e religione.
Alessandria d’Egitto, anno 391 dopo Cristo. A quell’epoca l’Impero Romano andava verso la dissoluzione, mentre i cristiani, fino ad allora banditi e perseguitati, avevano conquistato la libertà di professare la propria religione e acquisivano progressivamente potere culturale e politico. Un clima di tensione e intolleranza serpeggiava tra i vari popoli che calpestavano le strade della città: gli scontri religiosi tra pagani, cristiani ed ebrei erano frequenti e sempre più sanguinosi. In questa città dilaniata, una donna, la filosofa e brillante astronoma Ipazia figlia di Teone (l’ultimo bibliotecario di Alessandria, custode della cultura classica ed ellenistica), cercava di creare nella sua scuola un’isola di tolleranza e uguaglianza nella quale insegnare la passione per la scienza, la filosofia e, soprattutto, la libertà di pensiero. Ipazia (interpretata da una meravigliosa Rachel Weisz) si dovette scontrare con il vescovo della città: Cirillo (Sami Samir), successivamente divenuto Papa. Scontro quanto mai impari: coloro che ricoprivano le più importanti cariche politiche si erano ormai convertiti al Cristianesimo e una setta di guerrieri/difensori della fede, i Parabolani, si scagliavano contro chiunque non professasse la loro stessa religione. Ipazia fu la prima “strega” ad avere affrontato la persecuzione da parte della Chiesa. Una storia dimenticata e che il film di Amenabar rievoca in modo scomodo – non sembra un caso che in Italia Agora sia uscito con un anno di ritardo.
E pensare che il soggetto è emerso quasi per caso, nel corso delle ricerche di Amenabar e del suo sceneggiatore Mateo Gil: “Tutto ha avauto inizio quando per hobby ci siamo interessati alla Teoria della Relatività” dice il regista e Gil aggiunge: “Siamo arrivati alla storia di Ipazia quando abbiamo indagato su un progetto più grande, sulle persone che sono riuscite a superare circostanze sfavorevoli in momenti della storia in cui guardavano alle stelle e si chiedevano chi siamo, dove siamo e cosa significa tutto questo. Abbiamo scoperto che Ipazia, la sua storia e la società che la circonda, l’Alessandria del suo tempo, riassumevano perfettamente tutto il progetto”. Nel trasformare questa storia in immagini Amenabar dimostra di sapersi destreggaire molto bene anche con questo genere. Utilizzando le migliori tecnologie esistenti rinnova il linguaggio del kolossal in costume puntando sul realismo, su scene dirette e immersive. A questo si aggiunge una particolare attenzione per personaggi di estrazione sociale umile: in particolare Davo, interpretato da Max Minghella (figlio dello scomparso regista Anthony), rappresenta il punto di vista di uno schiavo. Come risultato, il film riesce a emozionare e a indignare lo spettatore per eventi che sono accaduti centinaia di anni fa. Evitando di sfruttare la facile retorica della storia d’amore, il film delinea il profilo di una donna che dedica la propria esistenza agli studi e all’insegnamento e difende sopra ogni altra cosa la propria libertà – senza barattarla nè con la sicurezza data da un matrimonio, nè con la vita stessa.
In un’epoca in cui l’intolleranza esplode di nuovo e i fondamentalismi sono un mezzo politico, questa storia è un monito, che indica anche una via di salvezza: per mantenere la pace è necessario rivolgersi alla cultura e avere l’umiltà di mettere in discussione le proprie convinzioni. Ipazia come paladina della scienza, la cui eresia si può condensare in ques’unica battuta: “Voi non potete mettere in discussione quello in cui credete, io devo farlo”.

Maria Silvia Sanna