RECENSIONE
titolo originale: Loong Boonmee raleuk chat
regia: Apichatpong Weerasethakul
cast: Sakda Kaewbuadee, Jenjira Pongpas, Thanapat Saisaymar
genere: Commedia, Fantasy
paese: Thailandia
anno: 2010
distribuzione: Bim Distribuzione
durata: 114′
uscita nelle sale: 15/10/2010
Non è semplice parlare di questo film, soprattutto se non si conosce la cinematografia in questione. Eppure, al di là della conoscenza, da questo film si può apprendere qualcosa: il cinema può tornare alle origini primordiali attraverso una totale immersione nell’animo umano. Si torna quindi a uno stato dove le sensazioni oltrepassano le mere considerazioni estetiche e tecniche, dove la storia è importante in relazione a una determinata semplicità e straordinarietà della vita. Per chi non conoscesse Apichatpong Weersethakul, la sua è una poetica delicata e toccante, e racconta tutto con un linguaggio insolito, apparentemente incomprensibile ma in realtà in piena sintonia con i linguaggi della mente e dell’inconscio.
Il film ha vinto la Palma d’Oro al Festival di Cannes, ma questo consolida un dato di fatto: critica e pubblico sono due entità totalmente separate. La critica ha accettato a pieni voti questo film, lo spettatore avrà molte riserve e problemi di digestione. Il pubblico non abituato si troverà spiazzato e annoiato da come tutto si svolge senza una minima logica “occidentale”. La differenza tra il cinema nostrano (occidentale) e quello orientale si fa netta e decisa, e le differenze sono: lo stile di ripresa, statica e priva di artifici, finalizzata semplicemente a raccontare l’immagine come colori e sensazioni, come ambiente che racconta i personaggi; la storia, che ai nostri occhi può risultare incomprensibile poiché non asseconda la nostra ricerca di un cinema dello svago, della linearità divertimento e del viaggio di un personaggio tra eventi e situazioni a noi familiari; infine c’è l’immaginario che rappresenta, che nel bene (soprattutto) o nel male non è il nostro. Il film ha come fonte la mitologia, la storia e la cultura thailandese e non solo. È incredibile come l’autonomia di questo cinema sia in perfetto contrasto con l’industria ormai meccanizzata “hollywoodiana”, dove l’azione, l’effetto visivo, la dinamicità del racconto e gli attori professionisti mettono in moto una macchina complessa e purtroppo prevedibile quale è il cinema occidentale.
In Lo zio Boonmee che si ricorda le sue vite precedenti non c’è nulla di questo: gli attori sembrano quasi essere (ri)presi in quotidianità lenta e per certi aspetti noiosa. Eppure, in questo raccontare della quotidianità, c’è un dettaglio che non si può non notare: il gusto del semplice e dell’ordinario. A un certo punto lo zio Boonme racconta una tragica esperienza del suo passato; l’ordinarietà di sedersi con qualcuno e parlare non è mai stato così di impatto. Il film è disseminato di dettagli ai particolari; ma questi dettagli non sono voluti, bensì sembra quasi che essi si trovino per caso davanti alla macchina da presa. E mentre si seguono le vicende, l’occhio cade su un particolare che rende l’immagine meravigliosamente “ferma” nella vita che tutti noi conosciamo.
L’irruzione dello straordinario però è principalmente il mito e le creature che popolano il film. Creature mitologiche e sovrumane si affiancano all’uomo comune; eventi straordinari diventano eventi ordinari; fantasmi del passato che ritornano nella vita del protagonista; il concetto di karma e destino che vengono narrati con favole e leggende. Noi non possiamo fare altro che rimanere sbigottiti di fronte all’incredibile fusione di quotidianità e fantasia, di storia comune e storia leggendaria. Questo mix di generi designa un particolare: il cinema puro è il cinema libero da ogni classificazione.
Riccardo Rudi