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L’uomo nell’ombra

8 aprile 2010

RECENSIONE
titolo originale: The Ghostwriter
regia: Roman Polanski
cast: Ewan McGregor, Pierce Brosnan, Kim Cattrall, Olivia Williams
genere: Thriller
paese: USA
anno: 2009
distribuzione: 01 Distribution
durata: 131
uscita nelle sale: 9/04/2010
8

Essere “l’ombra” del politico più importante d’Inghilterra può essere pericoloso. Un ghostwriter (colui che scrive l’autobiografia di un personaggio famoso) rimane intrappolato senza via di fuga in un intrigo politico di proporzioni gigantesche. Assunto per completare il manoscritto dell’ex primo ministro britannico Adam Lang, lo scrittore viene mandato su un’isola della costa orientale dove Lang deve soggiornare durante i suoi meeting negli Stati Uniti. Lo scrittore deve continuare il lavoro dell’assistente precedente, Mike McAra, trovato morto proprio sulle spiagge di quell’isola. Ma a sua insaputa rimane coinvolto in uno scandalo politico di dimensioni internazionali quando Adam Lang viene accusato di crimini di guerra per aver catturato dei terroristi in Pakistan e averli consegnati alla CIA. Il suo lavoro di scrittore “ombra” e la volontà di cercare la verità lo conducono a immergersi nel passato del politico, aprendo porte su un segreto sconvolgente.
Robert Harris è un romanziere e giornalista che nel 2007 ha scritto un romanzo controverso e molto criticato in Inghilterra, The Ghost. Il romanzo in questione trova in Roman Polanski il regista perfetto per  la trasposizione delle sensazioni tanto care all’autore, in un mix tra un noir e atmosfere hitchcockiane, una trama inquietante, dove niente è ciò che sembra.
Ghostwriter si presenta come un film affascinante, un thriller complesso, costruito su un incredibile gioco di atmosfera e fotografia, affianco a cui si aggiunge una narrazione piena di colpi di scena e rivelazioni coinvolgenti. Ogni avvenimento e ogni personaggio sembra parte di un piano mortale per il protagonista. La trama si basa sul sospetto e sul dubbio, in cui ogni tassello del puzzle che il ghostwriter sta ricostruendo sembra essere coinvolto in qualcosa di più grande. Tutto viene giocato sul fatto che può accadere ogni cosa, e che il protagonista non sembra mai totalmente al sicuro.
La narrazione è sempre sul punto di esplodere in un colpo di scena eclatante, ma solo nel finale, con la risoluzione clamorosa  del mistero e la conseguente apertura di un vaso di pandora, c’è la deflagrazione della tensione accumulata: ogni evento e situazione è costruito in modo tale da non lasciare spazio allo spettatore di interpretare ciò che è successo in quell’istante, così la tensione e gli enigmi crescono e si stratificano sino a toccare un punto in cui l’enigma sulla vita di Adam Lang diventa incomprensibile.
L’orchestrazione di questa enorme catena narrativa è straordinaria, degna di un regista come Roman Polanski, ma forse il vero tocco da maestro risiede nelle ambientazioni: lo scenario che fa da sfondo alla vicenda è surreale e minaccioso, quanto basta per rendere la storia quasi un racconto di fantasmi. La lugubre villa dove risiedono i personaggi sembra inghiottire in suoi abitanti in una trappola mortale, i paesaggi invernali dell’isola trasmettono sensazioni angoscianti, e la loro desolazione non fa altro che trasmettere un senso di perdizione che attraversa tutto il film.
Ewan McGregor interpreta un personaggio ambiguo: il ghostwriter è l’ombra per eccellenza, a cui sono stati sottratti i tratti distintivi e caratterizzanti, diventando un personaggio fantasma la cui unica missione è ricostruire il passato di Adam Lang. La soluzione dell’enigma viene trovata in un modo che forse ad alcuni non piacerà, ma che sicuramente ha un fascino degno dei gialli di fine ‘800.

Riccardo Rudi

Happy Family

24 marzo 2010

RECENSIONE
titolo originale: Happy Family
regia: Gabriele Salvatores
cast: Diego Abatantuono, Fabio De Luigi, Margherita Buy, Fabrizio Bentivoglio, Carla Signoris, Gianmaria Biancuzzi
genere: Commedia
paese: Italia
anno: 2010
distribuzione: 01 Distribution
durata: 90′
uscita nelle sale: 26/03/2010
5

Un tamponamento auto contro bici. La vita di Ezio (Fabio De Luigi), sceneggiatore single alle soglie dei quaranta, si intreccia così con quella di Anna (Margherita Buy) e Vincenzo (Fabrizio Bentivoglio), agiati esponenti della borghesia milanese, e della loro famiglia “allargata” con a carico nonnina rimbambita, e una prole composta dal vezzoso adolescente Filippo (Gianmaria Biancuzzi), figlio della coppia, e Caterina (Valeria Bilello), frutto del primo matrimonio di Anna, trentenne bellissima ma insoddisfatta. Le precoci aspirazioni nuziali dell’imberbe pargolo con la compagna di classe Marta (Alice Croci), li portano all’incontro con la famiglia, ben più ruspante e sgangherata, dei consuoceri, fatta di padre fanfarone e smodato fumatore di hashish (Diego Abatantuono), e madre insoddisfatta (Carla Signoris) con propensione all’alzata di gomito, e lo spaesato Ezio si trova, con essi, catapultato in un turbinio di confronti culturali e di classe, nuove e inaspettate amicizie, amori che vanno e amori che vengono. Ma un dubbio aleggia nella mente dello scrittore: “E’ tutto vero, o è solo frutto della mia immaginazione?
Tratto dall’omonima piéce di Alessandro Genovesi, presentata con successo per anni al Teatro dell’Elfo di Milano e ispiratrice di una sceneggiatura finalista al Premio Solinas, arriva nelle sale Happy Family, ultima fatica di un Gabriele Salvatores che stavolta si affida alla commedia leggera per indagare con piglio pirandelliano il complesso e sottile rapporto che lega l’autore alle sue “creature”.
Partendo da un’idea di fondo non tra le più originali, Salvatores imbastisce una sorta di sit-com corale concentrata in due ore di pellicola che, lungi dall’approfondire in tematiche di per se già talmente battute da richiedere un approccio più innovativo, o comunque in grado si sottrarsi al naufragio nel mare magnum del “già visto”, preferisce, piuttosto, fermarsi ad una successione male assortita di gag da piccolo schermo.
Nonostante l’origine teatrale, infatti, lo script sembra concepito in tutto e per tutto secondo i dettami del prodotto televisivo col suo procedere per scenette autoconclusive costruite su un meccanismo di ripetizione che reitera battute e situazioni in modo talmente forzato e macchinoso da risultare, alla lunga, estenuante. A ciò si aggiungono trovate scopiazzate in giro, come lo stile di vita e le origini della condizione benestante di Ezio, che ricordano troppo quelle del protagonista di About a boy di Nick Hornby, la leziosità di una storia d’amore telefonata e artificiosa, e le caratterizzazioni sopra le righe e talvolta insopportabili – come la nonna da caricatura – dei personaggi, che, sotto una regia costruita per siparietti (alcuni dei quali totalmente superflui, il massaggio hard cinese, per esmpio), concitata ed eccessiva, non riescono a portare Happy Family oltre i limiti di un divertissement blando e di puerile comicità.
Per fortuna, a elevare dalla mediocrità, rendendo perfino simpatica quella che altrimenti sarebbe potuta sembrare un’ingenua parodia da fiction dell’alleniano Harry a pezzi, provvede il brio di un cast che unisce l’irresistibile gigioneria di un ritrovato ed esuberante Abatantuono, al promettente talento del giovanissimo Gianmaria Biancuzzi, vera rivelazione del film, in un’atmosfera di palpabile affiatamento propria di chi sul set sembra essersi divertito parecchio. Peccato non provi lo stesso lo spettatore, al quale, al contrario, resta la fastidiosa sensazione di estraneità di chi si trova imbucato ad una rimpatriata tra un gruppo di amici a lui sconosciuti.

Caterina Gangemi

Fuori controllo

19 marzo 2010

Fuori Controllo - Locandina italianaRECENSIONE
titolo originale: Edge of Darkness
regia: Martin Campbell
cast: Mel Gibson, Ray Winstone, Danny Huston, Bojana Novakovic, Shawn Roberts
genere: Thriller
paese:  USA
anno: 2009
distribuzione: 01 Distribution
durata: 116′
uscita nelle sale: 19/03/2010
6

Mel Gibson si concede una pausa come regista e torna al tipo di film che lo ha reso famoso: pistola nella fondina e grugno duro, in Fuori controllo è Thomas Craven, un poliziotto cui hanno ucciso l’unica persona che avesse al mondo, sua figlia. Un uomo così non ha più nulla da perdere e desidera solo due cose: scoprire la verità e vendicarsi. Come è naturale, si mette a indagare sul caso e scopre che dietro la morte di Emma (interpretata dalla giovane e affascinante Bojana Novakovic, vista di recente in Drag me to Hell) ci sono segreti inquietanti e interessi pericolosi.
Sono passati sette anni dall’ultimo ruolo da protagonista dell’attore/regista americano, che afferma: “Se penso che una storia sarà affascinante e piacevole per il pubblico, allora salgo a bordo”. La storia del film è il riadattamento di una miniserie britannica degli anni Ottanta (girata, peraltro, dallo stesso regista, Martin Campbell), riambientata a Boston e aggiornata ai nostri tempi. La serie televisiva ebbe in patria un discreto successo e, in effetti, il plot sembra avere tutti i numeri per funzionare. I fan di Gibson potrebbero, però, rimanere assai delusi perché le due ore di thiller scritte da William Monahan (lo stesso sceneggiatore di Nessuna verità, The Departed) procedono con esasperante lentezza, mancando quasi del tutto di senso del ritmo cinematografico. Pecca notevole, soprattutto per un film di questo genere. Tra l’altro, molti personaggi sono affetti da logorrea. Certo, tra un dialogo e l’altro, c’è anche qualche colpo di pistola, uno sportello dell’auto staccato (probabilmente l’acme adrenalinico del film) e un discreto numero di morti ammazzati. Questo però non basta a fare un buon thriller. Specialmente nella seconda parte del film, in cui l’eroe arriva alla soluzione del mistero e compie la sua vendetta, la tensione è del tutto assente.
Funziona male il tentativo costruire per il poliziotto Thomas Craven una nemesi cospirazionista – il cui il cattivo (interpretato da un Danny Huston abbastanza macchiettistico) viene appoggiato dal governo. L’estremizzazione del potere rende l’intero intrico politico-economico pittosto inverosimile. O, più probabilmente, la sensazione di inverosimiglianza è alimentata da alcuni dettagli involontariamente comici – quelle piccole stonature che fanno invariabilmente crollare la sospensione dell’incredulità dello spettatore.
A conti fatti, da salvare resta solamente la caratterizzazione drammatica dei personaggi e i rapporti – non semplici, nè banali – che uniscono padre e figlia. I Craven sono un padre introverso e solo e una figlia forte e indipendente, che nonostante gli evidenti gap di comunicazione hanno un rapporto saldo e profondo. In effetti, Fuori controllo funziona meglio come dramma che come film d’azione, ma non è probabilmente questo che ci si attende da un film che sulla locandina mostra Mel Gibson armato di pistola.

Maria Silvia Sanna

Codice Genesi

23 febbraio 2010

Recensione
titolo originale: The Book of Eli
regia: Albert Hughes, Allen Hughes
cast: Denzel Washington, Gary Oldman, Mila Kunis, Ray Stevenson, Jennifer Beals, Michael Gambon
genere: Azione, Drammatico
paese: USA
anno: 2010
distribuzione: 01 Distribution
uscita: 26/02/2010
7

«Un giorno ho sentito una voce, sembrava venisse da dentro di me. Mi ha guidato in un luogo. Ho trovato questo libro, sepolto tra le macerie. E la voce mi ha detto di portarlo a ovest».
In queste semplici righe possiamo riassumere la “missione” (è proprio il caso di usare questo termine) di Eli: enigmatico guerriero solitario, impegnato in un incarico importante, che lo vedrà combattere e difendere strenuamente un libro destinato a salvare il mondo.
La storia, condita con quel pizzico di azione ed avventura che non guasta mai (produce, tra gli altri, quel Joel Silver cui si devono alcuni tra i film d’azione più memorabili di Hollywood come Matrix, Arma letale, Die hard e Predator) ha una collocazione temporale ben definita. Il film, infatti, ci conduce in un futuro che ha subito guerra, disastri nucleari e naturali (o qualsiasi altra combinazione di eventi). Una devastazione totale che già le sequenze di apertura ci offrono mostrandoci la terribile situazione del mondo, dove il protagonista passa davanti ai vari cadaveri abbandonati lungo le strade.
A raccontare la vicenda, che ipotizza un nuovo mondo in una situazione di vita primordiale, priva di qualunque regola comportamentale e dominata da un’anarchia generale, ci pensano i fratelli gemelli Hughes i quali, imprimendo come sempre il loro particolare stile visivo (ricordate La vera storia di Jack lo squartatore?), riescono a ricreare quell’esistenza primitiva in un prossimo (lontano, si spera) futuro, dipingendo il pianeta post-calamità nella sua desolazione ed asprezza, drammaticità e realisticità.
E ci riescono molto bene grazie ad una fotografia che ricrea quell’atmosfera fragile dove il cielo si muove più velocemente del normale, le nuvole hanno un percorso in senso contrario all’avanzare del protagonista, la foresta è arida e senza foglie e gli alberi ormai tutti morti.
Nel suo incessante peregrinare il nostro uomo (il Premio Oscar Denzel Washington, qui anche in veste di produttore) dovrà vedersela con il cattivo di turno (torna l’eterna lotta tra il bene e il male) incarnato sullo schermo da Carnagie (Gary Oldman), superstite del passato, che ha dedicato gli ultimi anni della sua vita a crearsi un impero tra le rovine di una città abbandonata e costruita con la violenza e il controllo dell’acqua.
D’accordo entrambi sul potere delle parole del libro, i due hanno un’opinione diametralmente opposta su come quel potere debba essere usato: per Eli sarà la base di una nuova società giusta, l’occasione per ricominciare evitando gli errori del passato; per Carnagie un mezzo per controllare la gente ed espandere il suo dominio.
In un periodo dove si è preda oppure cacciatore, Eli farà di tutto per portare a compimento la sua missione, affrontando ogni giorno un nuovo pericolo e fronteggiando quelle forze che vorrebbero trascinare lui e quel residuo di comunità in un abisso sempre più profondo.
Scene di lotta di strada, uso di armi, coltelli, spade, bastoni e una lama speciale che sembra l’estensione di un braccio. Il risultato finale è un insieme di diversi stili di arti marziali e di combattimenti a mani nude; un riuscito mix tra ambientazioni western e atmosfere apocalittiche (la mente non può non andare ai grandi precursori quali Mad Max, Waterworld, Ken il guerriero); anche se qui, più che dipingere un’ipotetica civiltà da non augurarsi, il film vuole concentrarsi maggiormente sul tema dell’impegno, del sacrificio e della sopravvivenza da parte di un ristretto gruppo di scampati.
«Ora la gente si uccide per cose che prima buttavamo via», si sente dire a un certo punto del film.
Toccando temi universali come la fede, il destino, il sacrificio e la speranza, chissà che questa pellicola non ci faccia uscire dalla sala apprezzando non solo qualche rimasuglio di civiltà passata (un grammofono a molla e le tazze di porcellana per il tè) ma anche la vita che stiamo conducendo nel presente.

Ravasio Piergiorgio

Nine

21 gennaio 2010

RECENSIONE
titolo originale: Nine
regia: Rob Marshall
cast: Daniel Day-Lewis, Penelope Cruz, Nicole Kidman, Marion Cotillard, Judy Dench, Kate Hudson, Fergie, Sophia Loren
genere: Musical
paese: USA/Italia
anno: 2009
distribuzione: 01 Distribution
durata: 110′
uscita nelle sale: 22/01/2010
4

In principio fu Fellini, che con il suo capolavoro 8 e mezzo, raccontò al mondo i propri turbamenti di regista in crisi creativa e personale. Complici i numerosi premi e, soprattutto, la fascinazione esercitata sul pubblico statunitense dall’immaginario swingin’ Rome, giunsero poi gli scaltri produttori di Broadway con l’intuizione di realizzarne una versione musicale dall’evocativo titolo Nine, che, ridotte ai minimi termini implicazioni autobiografiche e metalinguistiche, si prestasse a celebrare la visione a stelle e strisce dell’italico stile. Infine è arrivato Rob Marshall, che nello show ha trovato il materiale per riportare sul grande schermo i patemi esistenziali di Guido Anselmi, nel tentativo di replicare i successi dei precedenti e pluripremiati Chicago e Memorie di una Geisha.
Eppure, non sono bastati il glamour della confezione, il dispendio di mezzi, lo strombazzato divismo del cast, né, tantomeno, i riferimenti colti all’originale, ad assicurare all’ultima fatica del regista e coreografo del Wisconsin, la calorosa accoglienza sperata in patria, dove gli incassi si sono fermati a circa 5 milioni di dollari, a fronte degli oltre 64 impiegati nella produzione. E non è così difficile comprenderne le ragioni. La sceneggiatura (di Michael Tolkin e Anthony Minghella) innanzitutto, che, assumendo come base la versione già riadattata per i palcoscenici, dell’originale felliniano riprende la trama, opportunamente ri-drammatizzata ai fini di una fruizione semplice e immediata, ai limiti del didascalismo, i personaggi, e l’ambientazione anni ’60, facendone mero pretesto per una narrazione scontata e prosciugata di tutti i sottotesti dell’originale, quanto, piuttosto, limitata ad un elenco del solito, trito, campionario di luoghi comuni dell’Italia spaghetti-mamma-mandolino. C’è poi la regia di Marshall, stanca e talmente a corto di idee da incastrare i numeri musicali sempre secondo uno stesso meccanismo che vede i personaggi di volta in volta estraniarsi dal contesto, per affidare alla performance canora un’autopresentazione fin troppo esplicativa. Ed è proprio nei numeri musicali che Nine offre il peggio di se, alternando performance teatraleggianti con macchina da presa frontale, a pessimi videoclip degni di una qualsiasi starlette del pop, fino all’imbarazzante lap dance ginecologica di Penelope Cruz, alla quale non viene risparmiata neppure un (involontario?) remake del Buonasera dottore di televisiva memoria nostrana. Quanto alle affascinanti interpreti, degna di nota in positivo è la sola Nicole Kidman, già rodata in parti canore, mentre è il caso di stendere un velo pietoso su una Sofia Loren ai limiti del grottesco, relegata in un ruolo ridicolo e superfluo. Si aggiungano, infine, la mediocrità dei brani, tutti improntati su uno stile melodico classico lagnoso e stucchevole da animazione Disney di una volta, l’inconsistenza dei personaggi, la totale assenza di ritmo e, soprattutto di quella rutilante spettacolarità propria del genere musical, per dare un senso al flop americano di un prodotto che non appassiona né diverte.
Un film che resterà impresso per la sola ragione di aver offerto a un Daniel Day-Lewis legnoso e a disagio nel canto, il peggior ruolo della sua carriera.

Caterina Gangemi