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L’amore fa male

7 ottobre 2011

RECENSIONE
regia: Mirca Viola
cast: Stefania Rocca, Nicole Grimaudo, Stefano Dionisi, Paolo Briguglia, Diane Fieri, Claudio Bigagli
genere: Drammatico
paese: Italia
anno: 2011
durata: 100′
distribuzione: M2 Pictures 
uscita: 07/10/2011
voto: 5

Dopo una lunga gavetta come aiuto regia (per Piscicelli e Giuseppe Ferrara, tra gli altri) l’ex “Miss Italia per un giornoMirca Viola debutta dietro la macchina da presa per raccontare le vicissitudini sentimentali di un gruppo di professionisti in un intrigo di percorsi esistenziali diviso tra Roma e la Sicilia.
Dall’attrice (Rocca) svampita e di belle speranze, madre di un’adolescente e amante di un attempato ricco avvocato (Bigagli), alla dottoressa (Grimaudo) che scopre l’omosessualità del marito (Dionisi), al giovane immobiliarista (Briguglia) fin troppo suscettibile a tentazioni extraconiugali.
Niente di nuovo, soprattutto all’interno di un panorama ormai dominato dal leit-motiv delle corna upper-class declinate in ogni variante e registro, ma ciò che pone il film al di sopra di analoghe produzioni nostrane è il suo presentarsi sotto la confezione accurata di un intreccio corale che aggira la pochade sul versante del dramma intimista restituendo con sensibilità e senza indulgenze, il ritratto di un microcosmo alto-borghese colto nelle sue frustrazioni di un perbenismo di facciata destinato a implodere sotto il peso di pulsioni troppo a lungo represse.
Ciò consente a L’amore fa male di partire sotto i migliori auspici, spinto da una regia vivace e lontana da schematismi, una fotografia funzionalmente raffinata e una colonna sonora (di Andrea Guerra) ingombrante ma non invadente, e dall’ottima prova dell’ensemble di interpreti, efficaci nel rendere la tensione emotiva di personaggi sfaccettati e complessi, al di là dei cliché.
Restano, tuttavia, i limiti dell’opera prima e di un approccio sotto molti lati ancora acerbo che sottrae all’insieme la sua necessaria coesione narrativa e stilistica, e dispiace, così, veder disattese le migliori aspettative in una seconda parte nella quale la trasferta isolana butta tutto in caciara precipitando nei più banali stereotipi turistici sole-mare-agrumi, aprendosi a facili soluzioni da fiction televisiva e convogliando il tutto verso un finale posticcio e consolatorio, con l’unico effetto di vanificare quanto di buono visto in precedenza per metterne a nudo le magagne latenti.

Caterina Gangemi

Transformers 3

28 giugno 2011

RECENSIONE
titolo originale: Transformers: Dark of the Moon
regia: Michael Bay
cast: Shia LaBeouf, Josh Duhamel, Rosie Huntington-Whiteley, John Malkovich, Hugo Weaving
paese: USA
anno: 2011
durata: 156
distribuzione: Universal Pictures
uscita: 28/06/2011
voto: 8

 

Alla fine, il ciclone 3D ha investito anche la serie Transformers.

Proprio così, per il terzo capitolo della costosissima saga cinematografica incentrata sui giocattoli trasformabili che l’industria americana Hasbro, a metà anni Ottanta, acquistò dalla giapponese Takara per poi renderli anche protagonisti – con il coinvolgimento della Marvel Comics – di strisce disegnate e serie a cartoni animati, il regista Michael Bay, già autore dell’ottimo capostipite datato 2007 e del passabile sequel Transformers-La vendetta del caduto, di due anni dopo, ha deciso di fare ricorso alla visione tridimensionale.
Quindi, se nel primo film eravamo venuti a conoscenza del giovane Sam Witwicky alias Shia LaBeouf, ignaro di essere l’unico ed assoluto responsabile della sopravvivenza degli esseri umani all’interno di una guerra tra robot alieni divisi in buoni Autobot e malvagi Decepticon, continuamente in lotta per il futuro dell’universo, e nel secondo lo avevamo visto tornare a combattere a causa dell’inaspettata ricomparsa sulla Terra del temibile Megatron, dato per morto, questa volta bisogna inforcare gli appositi occhialini per gustare a dovere le oltre due ore e mezza di visione; le quali promettono azione e dispendio di eccellenti effetti digitali già a partire dal prologo, che anticipa le immagini del viaggio intrapreso da Neil Armstrong sulla Luna, all’inizio degli anni Sessanta.
Perché, ancora una volta coadiuvata dalla produzione esecutiva di Steven Spielberg, in questo caso la vicenda svela che le missioni Apollo erano state in realtà organizzate dagli americani, all’epoca, per scoprire cosa accadde quando un’astronave degli Autobot si schiantò sul nostro satellite.
Quindi, fuori Megan Fox e dentro la televisiva Rosie Huntington-Whiteley nei panni di Carly, nuova fidanzata del protagonista, è Shockwave, tiranno di Cybertron, il pericoloso nemico da affrontare per la salvezza del mondo; man mano che il cast, oltre a recuperare dai tasselli precedenti John Turturro, Josh Duhamel e Tyrese Gibson, si arricchisce di volti noti, dal premio Oscar Frances McDormand a John Malkovich, passando per Patrick Dempsey.
E Bay, che, come già fece per Armageddon-Giudizio finale, inserisce nella colonna sonora Sweet emotions degli amici Aerosmith, non dimentica, ovviamente, le sue tipiche esaltazioni del patriottismo a stelle e strisce e del machismo di stampo militarista; pur senza rinunciare a tutt’altro che invadenti spruzzate d’ironia (si pensi solo alla madre di Sam, il cui comportamento ricorda sempre più quello della Barbra Streisand di Mi presenti i tuoi?), mentre sembra quasi suggerire, tra l’altro, che i conflitti bellici possono essere scatenati in maniera tranquilla dal fraintendimento dell’affermazione che vuole la libertà quale diritto di tutti.
Oltre a lasciar (intra)vedere una certa allegoria relativa alla pericolosità dell’evoluzione tecnologica ed a dare il meglio – come nei due episodi precedenti – nel corso dei lunghi, spettacolari ed emozionanti momenti di scontro per le strade della metropoli, che tanto sembrano incarnare una moderna rilettura ad altissimo budget dei kaiju eiga con protagonisti Godzilla e derivati.
Per un elaborato che, tra buone trovate volte alla spettacolarità (da antologia la sequenza del grattacielo in pendenza prossimo al crollo) ed inaspettati risvolti di sceneggiatura (fatto strano, visto che a firmarla è il mediocre Ehren Kruger), riesce addirittura a raggiungere le vette del riuscitissimo capostipite, ritraendo le creature robotiche fornite perfino di una certa umanità e presentando, quando necessario, i connotati di un vero e proprio incubo futuristico su pellicola.
Con notevole senso del ritmo e l’intento di ribadire che l’essere umano può perdere fiducia nelle macchine, ma mai in se stesso.

Francesco Lomuscio

Zack e Miri – Amore a primo sesso

4 giugno 2011

RECENSIONE
titolo originale: Zack e Miri make a porno
regia: Kevin Smith
cast: Seth Rogen, Elizabeth Banks, Traci Lords, Jason Mewes, Katie Morgan, Ricky Mabe
genere: Commedia
paese: USA
anno: 2008
durata: 101
distribuzione: M2 Pictures
uscita: 01/07/2011

7

Amici di vecchia data, Zack e Miri condividono un piccolo apartamento a Pittsburgh. Corpulento ed erotomane lui, goffamente graziosa lei, entrambi squattrinatissimi e alle prese con montagne di bollette da pagare, dopo averle tentate tutte pur di sbarcare il lunario, decidono di giocarsi un’ultima carta: quella del porno amatoriale. Così, trovata la location e messo insieme uno sgangherato staff, i due si preparano al primo ciak, tra rocamboleschi incidenti e inattesi imprevisti.

A cinque anni di distanza da 40 anni vergine, l’interprete di punta del cinema americano più irriverente Seth Rogen ritrova la compagna di avventure Elizabeth Banks  in questa nuova, divertente commedia diretta, scritta e montata dal regista di Clerks Kevin Smith, che li vede al fianco – tra gli altri – dell’ex star dell’hard Traci Lords e del fido Jason Mewes, l’indimenticato Jay, partner di Silent Bob.

Volgarissimo, sboccato, spesso politicamente scorretto, Zack e Miri, amore…a primo sesso! Si dipana a tutti gli effetti, e per restare sul tema, secondo gli alti e bassi di uno di quei rapporti sessuali agognati da tempo all’insegna delle migliori aspettative. E se la partenza è di quelle col botto al gusto di Viagra, in un susseguirsi sincopato ed esilarante di turpiloquio, spassose citazioni, gag scatologiche e trovate irresistibili, basta il primo cenno di svolta sentimentale per far retrocedere e ammosciare il tutto, come in una sorta di coitus – suo malgrado- interruptus, riconducendolo con furbetteria vagamente ipocrita, entro un binario più rassicurantemente prevedibile.

Certo, Smith è ben lontano dai Farrelly, ma quegli amanti di un certo humor sfacciato e senza compromessi che non riusciranno a far meno di chiedersi cosa ne sarebbe stato dello stesso soggetto nelle mani degli autori di Tutti pazzi per Mary, troveranno ciononostante sicuro appagamento in sequenze memorabili e già in odor di cult: su tutte la scelta del titolo e il reclutamento del cast, con tutto il suo assortimento di personaggi bizzarri e improbabili.

Consigliatissimo a tutti coloro che si sono sempre chiesti cosa fosse un Timone Olandese, ma non hanno mai osato chiedere.

 Caterina Gangemi

Manolete

14 Maggio 2010

RECENSIONE

titolo originale: Manolete
regia: Menno Meyjes
cast: Adrien Brody, Penelope Cruz, Santiago Segura, Juan Echanove, Josep Linuesa
genere: Drammatico / Biografico
paese: Spagna
anno: 2010
distribuzione: Eagle Pictures
uscita: 14/05/2010
7

Manuel Rodriguez, conosciuto come Manolete, è un torero che nella Spagna degli anni ’40 ha riscosso un successo incredibile grazie alle sue grandi doti e abilità, suscitando l’esaltazione di un popolo povero e sofferente che usciva da una guerra civile. Dietro la sua danza da combattente, i suoi viaggi e  il suo successo in arena si nasconde un uomo triste e solo, innamorato della morte che rappresenta ogni incontro a cui partecipa. Durante una delle stagioni di corride Manolete incontra Lupe Sino, donna pericolosamente sincera, bella e che ha dietro le spalle un problematico passato che però l’ha resa amante della vita, al contrario di Manolete. La storia tra i due sboccia all’istante e grazie a lei il torero solitario ha un nuovo scopo nella vita oltre a quello di ottenere fama e di affrontare la morte.
La vita di figure famose, o reputate tali, è sempre stato terreno di spunto per storie e personaggi interessanti e coinvolgenti, ma fino a che punto il mito e la leggenda rimangono separati dalla verità? Quando l’esaltazione intacca i fatti riducendo il personaggio a un’icona “eroica”?
Sicuramente il genere biografico coinvolge proprio per l’aspetto di celebrazione e il misticismo che avvolge il protagonista, ma quest’elemento deve essere supportato da un valido supporto estetico, con una scelta narrativa che valorizzasse non solo gli eventi che ruotano intorno al protagonista, ma anche opzioni linguistiche come inquadrature e ambientazioni, uso di giochi temporali come flashback, e così via. Manolete è una pellicola che si rende interessante proprio per queste caratteristiche, senza le quale avrebbe suscitato poca curiosità.
Il regista, Menno Meyjes, oltre a scegliere un impianto estetico e di montaggio particolare, è riuscito a rendere particolarmente interessante un tipo di pratica che come la corrida suscita scalpore e molte critiche, e che culturalmente è molto distante da noi; il rischio era quello di non rendere coinvolgente la storia di Manolete, ma  il regista è riuscito farlo raccontando e racchiudendo l’analisi della società spagnola degli anni ’40, facendo nascere la curiosità allo spettatore riguardo ai motivi per cui la corrida era così importante e perché Manolete era diventato icona del suo tempo.
La sottile metafora della vita e della morte che aleggia nel film è una costante dialettica impersonata dai due protagonisti, Manolete e Lupe. Calcando forse troppo la mano da questo punto di vista, i due personaggi camminano su due sentieri che collideranno e che provocheranno un bel po’ di problemi. Le loro due mentalità contrapposte porteranno i due amanti a scontrarsi più di una volta, movimentando la storia con scossoni forti e stavolgenti.
Far impersonare Manolete da Adrien Brody è stata una scelta giusta: durante i titoli di coda viene mostrato il vero Manolete, e Adrien Brody è più che azzeccato per la sua parte dato che fisicamente è quasi uguale. Ma Penelope Cruz è la vera star del film, non solo perché notoriamente è l’attrice più conosciuta, più amata e più apprezzata, ma perché è il vero motore narrativo, colei che fa scoccare una scintilla che poi si trasformerà in un fuoco distruttivo.
Forse proprio per la distanza culturale che lo “sport” della corrida rappresenta per noi,e forse per la costruzione registica ed estetica eccessivamente onirica, mnemonica, che ripercorre in maniera quasi maniacale i pensieri del protagonista, la storia non viene fruita con semplicità.

Riccardo Rudi

Dear John

6 Maggio 2010

RECENSIONE
titolo originale: Dear John
regia: Lasse Hallström
cast: Channing Tatum, Amanda Seyfried, Henry Thomas, Scott Porter, Richard Jenkins
genere: Drammatico, Romantico
paese: USA
anno: 2010
distribuzione: Sony Pictures Releasing Italia
durata: 110
uscita: 07/05/2010

Ci può essere qualcosa di più banale e noioso di un rapporto d’amore epistolare?Si: un film su un rapporto d’amore epistolare. A maggior ragione se la vicenda amorosa in questione è infarcita di mosse prevedibili, luoghi comuni, tecniche di seduzione e di abbandono scontate.
Dear John, il nuovo film di Lasse Hallström, – il regista svedese più romantico e strappalacrime del cinema contemporaneo – è esattamente questo: una storia d’amore vista e stravista, un melò trito e ritrito che risulta persino ridicolo in certe scelte forzate e posticce, nella trama standardizzata e a tratti superficiale.
John Tyree (Channing Tatum) è uno schivo e prestante militare delle forze speciali che, in licenza, torna in Sud Carolina a trovare il padre (Richard Jenkins). È qui che si imbatterà casualmente e si innamorerà rapidamente, in sole due settimane, di Savannah (Amanda Seyfried), bionda e bella studentessa universitaria che trascorre l’estate a casa dai suoi. Quando John deve tornare nell’esercito, Savannah le chiede di dar vita ad un reciproco scambio di lettere (da cui il titolo del film) per potersi mantenere in contatto e amarsi a distanza. Tutto sembra possibile e romantico finché la tragedia dell’11 settembre e il prolungamento della missione di John non mette a dura prova la loro storia e il futuro stesso del loro amore.
Tratto dal romanzo del bestselleriano e sentimentale Nicholas Spark, Ricordati di guardare la luna, (dalla cui prolifica penna è stato tratto anche The Last Song, in uscita in questi giorni), Dear John imbocca in pieno la strada del melodramma e porta lo spettatore su sentieri arcinoti e lungo direzioni ovvie, fatte di fulminei innamoramenti, di bellezza estrema e patinata, di straordinario e perfetto altruismo, senza farsi mancare la solita malattia terminale ad effetto (sebbene legata ad un personaggio minore, ma non troppo).
Il pur bravo Hallström, che ha realizzato, senza pretese di intellettualismo, film piacevoli e commoventi come Buon compleanno Mr.Grape (1993) e Le regole della casa del sidro (1999), o commedie romantiche e stuzzicanti come Chocolat (2000) e che ha avuto tre candidature agli Oscar, stavolta non convince, semmai infastidisce.
Sarà anche per la bellezza un po’ plastica degli attori, soprattutto di Tatum che ha le classiche spalle larghe da surfista, in pieno american-style, e l’incedere da modello, sarà per la rapidità e il simbolismo con cui viene toccata una tragedia immane (e forse irrappresentabile) come quella dell’11 settembre 2001, sarà per i risvolti improbabili che prende la storia, ma il film risulta poco credibile e poco godibile, almeno per un pubblico adulto e maturo.
È probabile infatti che Dear John piaccia tantissimo alle adolescenti proprio per i suoi difetti, per la perfezione da teen-idol di Tatum, per il romanticismo ingenuo che lo ispira, per le lacrimucce di rito che può far sgorgare. Bisogna avere un’attitudine giovanilistica e un cuore tenero e inesperto per poter apprezzare un film del genere senza (fondati) pregiudizi e senza provare una senso di patetico e di finto.

Margherita Ciacera

Gli amori folli

1 Maggio 2010

RECENSIONE
titolo originale: Les Herbes Folles
regia: Alain Resnais
cast: Sabine Azema, Andre  Dussollier, Anne Consigny, Emmanuelle Devos, Mathieu Amalric
genere: Commedia, Sentimentale
paese: Fracia
anno: 2010
distribuzione: Bim Distribuzione
durata: 104’
uscita nelle sale: 30/04/2010
7

Quando Georges trova un portafoglio al centro commerciale, il suo destino si incrocia con quello di Marguarite, in una storia d’amore “folle” e stravagante, dove le regole della passione vengono sovvertite per dar voce a uno humor del tutto privo di logica. Georges non può fare a meno di pensare a lei, e quando ha l’opportunità di poterla conoscere rovina tutto per via della sua eccessiva voglia di incontrarla. D’altra parte, però, Marguarite non resiste alla tentazione di conoscere l’uomo che le ha trovato il portafoglio, avvolto in un alone di mistero, e il loro incontro di fronte a un cinema cambierà la vita di entrambi.
A novant’anni Alain Resnais non demorde, e il regista di Parole, Parole, Parole, dal 1948, continua  restituirci il suo sguardo rocambolesco in una sceneggiatura di incredibile fascino e originalità. Tratto dal romanzo L’Incident di Christian Gailly, Gli amori folli si presenta subito come un film puro, dove la meraviglia e l’incanto di una storia non lineare restituiscono suoni e visioni andati persi nelle convenzioni narrative ed estetiche hollywoodiane. Alain Resnais dà fondo a tutta la sua conoscenza cinematografica per creare una pellicola dove i vari riferimenti alla cultura filmica vengono mescolati in un calderone pieno di follia e vitalità.
Il film sembra un brano improvvisato, e come nella musica jazz ci sono variazioni inattese senza seguire uno standard compositivo: così ha fatto Alain Resnais, il quale ha espresso in pieno la sua volontà di trasporre questa sensazione di musicalità nella pellicola, e che nel libro era già accentuata. I due protagonisti, infatti, sembrano essere mossi da pensieri e motivazioni che vanno al di là della comprensione, e si è spiazzati di fronte a determinate azioni e a flussi di coscienza che prendono vita in piccole finestre sovrimpresse sull’immagine, come per dar voce e visione dei propri pensieri.
L’irrazionale regna sovrano nel film, come se l’intenzione del regista fosse quella di rappresentare proprio l’irrappresentabile sotto la luce di quanto provano i due protagonisti: un irrefrenabile ricerca dell’amore e il desiderio di amare una figura ideale, e sono i dialoghi a giocare un ruolo fondamentale nell’esprimere questa irrefrenabile ricerca. Tanto divertenti quanto inverosimili, sfiorano il nonsense più puro ma proprio per questa peculiarità e l’assenza di una logicità comprensibile il film potrebbe risultare ostico agli occhi di molti, che forse ricercano una pellicola dove l’amore sia dettata sotto leggi ferree al quale il cinema classico ci ha abituato, ossia quell’amore realistico e ostacolato da contrasti drammatici (o anche comici).
Gli amori folli è ribellione, è comicità francese, forse troppo lontana da noi, forse troppo elitaria, ma Alain Resnais ci regala l’ultima gemma del suo vastissimo repertorio, tanto contemporaneo quanto rivoluzionario nel campo cinematografico.

Riccardo Rudi